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B. Newman, Morte di Euclide, 1947 |
Risale a poco più di due anni fa la
pubblicazione, nelle Miniature, di uno
splendido libretto dal titolo Il sublime,
adesso, che contiene due saggi fondamentali di Barnett Newman accompagnati
da L’istante, Newman di J.F. Lyotard,
il filosofo “inventore” del Postmodernismo.
Non vi parlerò del saggio arcinoto che
dà il titolo al volume, ma del più lungo L’immagine
plasmica, scritto probabilmente nel 1945, meno noto, forse, per il fatto
d’essere stato pubblicato postumo. Si tratta di uno scritto straordinario che,
tra le tante cose, è la dichiarazione d’intenti dell’artista Newman e la prova
di come uno sguardo attento e partecipe possa cogliere e capire in presa
diretta una realtà artistica nuova e ancora in formazione- è quella data
precoce, 1945, a testimoniarlo.
Partendo da questa seconda
considerazione, colpisce l’argutezza critica di Newman; egli infatti coglie- ed
è sicuramente tra i primi- un fatto essenziale che nei manuali di storia
dell’arte contemporanea abbiamo letto tante volte: la seconda guerra mondiale e
il conseguente esodo del mondo artistico europeo negli Stati Uniti come
presupposto socio-politico e culturale per l’esplosione del nascente
Espressionismo Astratto.
«L’America sta dando vita a un
movimento artistico davvero nuovo; forse è naturale che dovesse accadere
proprio qui. La guerra in Europa e in Asia, infatti, pur coinvolgendola, non
l’ha scossa, e gli artisti in America sono stati liberi di continuare il
proprio lavoro», scrive Newman, che aggiunge, «in virtù dello stimolo dei
numerosi pittori rifugiati, gli artisti di New York hanno iniziato a sentirsi
leader e ambasciatori, non più semplici specchi, della tradizione artistica europea».
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B.Newman (a sinistra) con Jackson Pollock (al centro) e Tony Smith accanto a Vic Heroicus Sublimis, durante la seconda personale di Newman nell'aprile del '51 |
Innanzitutto, il rapporto con le
avanguardie non può che essere visto come salutare, dato l’atteggiamento polemico
verso «quegli americanisti di professione che hanno speso gli ultimi due
decenni nel tentativo di promuovere una arte popolare a buon mercato
mascherandola sotto il vessillo di una politica isolazionistica». Eppure non
mancano le critiche ai pittori surrealisti che, disinteressandosi dei «valori
plastici» e puntando unicamente sul tema della dimensione onirica, «si sono
accontentati di un trattamento della superficie e di mezzi pittorici
accademici»; l’unica eccezione a questa deriva è Mirò: «è per questo che il
movimento pittorico guarda a lui come a una guida»- nella conclusione del
saggio, tuttavia, Newman non può non ammettere che, dato che le opere della
nuova arte americana «cercano anche di dire qualcosa -ovvero, hanno un
soggetto- era ugualmente inevitabile che la loro forma astratta dovesse avere
sfumature surrealiste».
Altrettanto conflittuale il rapporto
con l’astrattismo, o, per essere più precisi, con l’astrattismo cosiddetto
geometrico: è Mondrian il bersaglio principale di Newman, poiché la sua
concezione «affonda le radici in una cattiva filosofia e in una logica fallace»
il cui estremismo purista ha finito «per ridurre l’arte a mero arabesco».
Ora, la critica alla pittura moderna è
quella di essersi ridotta a un formalismo fine a se stesso e vuoto di
significati, un’arte tutta concentrata nell’autoanalisi: «il denominatore
comune della pittura moderna è stato l’interesse tecnico per le caratteristiche
e le proprietà del mezzo[1]»,
«l’approccio alla pittura è stato dunque dominato da un atteggiamento
oggettivo, quasi scientifico», e aggiunge Newman, riconoscendo i meriti di
questo approccio, «la pittura nuova è giunta a un punto in cui i problemi
tecnici del linguaggio hanno trovato una soluzione soddisfacente».
Ma questo considerare l’arte delle
avanguardie storiche in termini esclusivi di autodefinizione non è sbagliato?
Non si rischia di semplificare uno dei periodi più complessi dell’intera storia
dell’arte? Newman, insomma, non è il primo a cadere nell’errore formalistico
della coeva critica d’arte americana?
Se le cose sono come penso, Newman,
almeno nel prendere in considerazione le avanguardie storiche, e principalmente
l’astrattismo, fa lo stesso errore della critica d’arte inglese capeggiata da
Roger Fry e Clive Bell -numi tutelari del formalismo- che qui attacca a lungo e
con tanta precisione e giustezza. Il punto, a mio avviso, è che la visione
newmana della pittura del primo novecento si fonda proprio sulle teorie degli
avversati Fry e Bell: il che è molto limitante[2].
E non solo.
Nella generale condanna è determinante
la questione del primitivismo: esso è fondamentale per gli artisti tardo
ottocenteschi e primo novecenteschi allo stesso modo di come lo è per Newman;
il problema è che, secondo il pittore americano, l’arte primitiva è stata fino
a quel momento essenzialmente fraintesa!
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B. Newman, Genesi- la separazione, 1946 |
Innanzitutto in qualcosa di
estremamente diverso dall’astrattismo geometrico, usato per soli «fini
ornamentali» e nettamente distinto dall’arte vera e propria; e quindi nel fatto
che l’arte primitiva nasce e si sviluppa per significare qualcosa, un
«contenuto di pensiero capace di giungere puro alla sensibilità del fruitore
toccando l’intimo del suo essere»: è per questo che l’artista primitivo «non è
per nulla interessato alla natura estetica della figura, della forma».
Ecco quindi che, continuando la
tradizione del primitivismo primo novecentesco, Newman la rinnova (o crede di
farlo) prendendola a modello di ciò che gli artisti americani cominciavano a
creare: «il pittore nuovo è simile all’artista primitivo che, trovandosi perennemente
dinnanzi al mistero della vita, aveva come principale preoccupazione quella di
esprimere la sua meraviglia, il suo terrore di fronte a esso o alla grandiosità
delle sue forze, e ignorava le qualità plastiche della superficie, della trama,
ecc.». E aggiunge, in un passo altrettanto determinante: «L’artista primitivo
praticava un’arte non sensuale, si preoccupava della espressione dei propri
concetti; allo stesso modo, il pittore nuovo è ansioso di farsi canale della
contemplazione per mettere il fruitore in contatto con i contenuti
fondamentali».
L’arte primitiva e il nascente
Espressionismo Astratto sono quindi, per Newman, fenomeni artistici in cui il
“contenuto” e il “concetto” -trascendentali, metafisici- diventano le questioni
principali.
In cosa consiste dunque quell’ immagine plasmica che da il titolo al
saggio, la proposta teorica e pratica di Barnett Newman?- con questa domanda,
entriamo nella parte più interessante e importante dello scritto.
Innanzitutto in un modo di agire in cui
«gli elementi plastici dell’arte [ovvero, tutto quello che ha prodotto l’intera
cultura occidentale fino a quel momento] risultano convertiti in plasma
mentale. Caratteristica di queste nuove immagini è che forme e colori vi
agiscono come simboli atti a suscitare in colui che le osserva un
coinvolgimento simpatetico nella visione dell’artista»; e dato che la visione
dell’artista non ha nulla di tradizionale, questi simboli non possono che
essere nuovi e personali. Ecco quindi che i nuovi artisti americani, pur derivando
il loro linguaggio dall’astrattismo, propongono una pittura che ha a che fare
«con un nuovo contenuto inedito»: essenzialmente una «comprensione più
profonda, una visione del mondo stesso».
Aggiunge Newman: «l’obiettivo non è la
piacevolezza degli strumenti [artistici] in sé, ma ciò che essi creano. Ciò che
ha valore è la loro natura plasmica, la loro componente soggettiva che
susciterà una reazione soggettiva in ogni lettore di quel linguaggio»; questo
passaggio, tra le altre cose, ci dice che per gli espressionisti astratti un
punto essenziale è l’incontro con lo spettatore, al fine di provocare una
reazione che non sia esclusivamente e principalmente di tipo estetico.
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B. Newman, Onement I, 1948 |
L’artista giunge al punto di spiegare
la componente astratta della nuova arte americana attraverso la filosofia: «le
nuove opere hanno dunque carattere filosofico; avendo a che fare con concetti
filosofici che sono per natura propria astratti, era inevitabile che anche la
forma pittorica dovesse essere astratta».
A questo punto si porgono alcune
domande: quanto può essere valido il far risalire i motivi della nuova pittura
americana a un rapporto di dipendenza da concetti filosofici di fondo? Ciò può
esser valido per Newman, ma siamo sicuri che lo sia anche per artisti come
Pollock o de Kooning (il primo è citato dallo stesso Newman)?
Può inoltre sembrare strano che il
nostro artista se la prenda tanto col criticismo inglese e l’estetica
formalista in genere per poi avere parole di elogio verso Clement Greenberg; ma
in realtà Newman è totalmente giustificato dal fatto che il Greenberg di quel
periodo ancora non aveva messo a punto la sua teoria modernista dell’autodefinizione,
teoria che il critico fonda proprio sull’Espressionismo Astratto, su quella
nuova arte primariamente contenutistica descritta da Newman in queste pagine-
inutile aggiungere, quindi, che l’interpretazione che i due offrono dello
stesso fenomeno è molto diversa, anzi, addirittura agli antipodi e quella
greenberghiana contestata di fatto, quasi con preveggenza, in questo saggio del
’45.
E allora, non vi sembra che l’esigenza
di portare alla ribalta il contenuto, di legare l’arte al pensiero e
all’attività conoscitiva, addirittura alla speculazione filosofica, leghi o
quantomeno avvicini di parecchio le posizioni di Newman a quelle di un suo
grande avversario, il teorico dell’iconologia Erwin Panofsky?[3]
- su quest’ultima ipotesi in futuro ci tornerò.
[1] Non
sfugga la straordinaria anticipazione delle tesi moderniste di Clement
Greenberg che questa frase contiene!
[2] Robert
Rosenblum nel suo La pittura moderna e la
tradizione romantica del Nord- da Friedrich a Rothko, 5 Continents 2006 (di
cui tra qualche tempo potrete leggere una recensione in questo blog), non solo
interpreta Mondrian in maniera giustamente opposta a quella di Newman, ma “accusa”
l’artista americano di aver «senza dubbio» confuso Mondrian coi suoi
allievi.
[3] Sulla querelle con Panofsky vedi H. Rosenberg,
Action Painting- scritti sulla pittura
d’azione, Maschietto editore 2006; sul ruolo svolto da Meyer Schapiro in
favore di Newman vedi il saggio di Beat Wyss La contemporaneità di un medievista. Il suggeritore dell’artista,
contenuto in Meyer Schapiro e i metodi
della storia dell’arte, Mimesis 2010.