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Arco di Costantino, 312-315 d.C. Facciata nord |
Il saggio di Bernard Berenson di cui vi
parlo in questo post è esemplare non solo di tale atteggiamento di condanna -non
a caso si intitola L’arco di Costantino,
o della decadenza della forma[1]- ma anche di quell’approccio
formalista che nei primi decenni del Novecento aveva dominato gli studi storico
artistici.
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Bernard Berenson |
Più chiari di così non si potrebbe essere:
l’analisi della forma viene prima di ogni cosa, e da essa risulta che l’arte da
Costantino in poi è solo decadenza- è chiara la polemica di Berenson nei
confronti dell’iconologia e delle rivalutazioni promosse dalla Scuola di
Vienna, e in particolar modo da Wichkoff e Riegl (i due grandi esponenti della
scuola viennese vengono espressamente contestati).
Altrettanto significativo il momento in
cui il Nostro distingue ciò che è propriamente arte da quelli che sono solo «manufatti di mera importanza
storica»: inutile dire che i rilievi costantiniani e buona parte delle opere
medievali appartengono alla seconda categoria- come è altrettanto chiaro che la
divisione tra arte e non arte, se applicata alla Antichità, è
fuorviante e inesatta.
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Arco di Costantino, fregio costantiniano dell' Oratio |
Semplificando: per decorazione si
intende l’elemento formale dell’opera d’arte, che è poi il suo valore eterno
contrapposto a quello mutevole, dipendente cioè dai cambiamenti del gusto[2],
che è l’elemento contenutistico, illustrativo. Il saggio sull’Arco di
Costantino è una riflessione sull’ elemento decorativo, dunque sugli aspetti
formali (non a caso il sottotitolo recita o
della decadenza della forma) dell’opera e di quelle che le sono collegate
C’è però da dire che, riflettendo sulle
implicazioni contenutistiche, ideologiche, sociali della forma artistica, lo
studioso attenua quel formalismo intransigente che abbiamo visto nel passaggio
precedente; infatti «indagheremo come e quando, in un dato tempo e luogo, gli
elementi decorativi sanno adeguatamente esprimere gli ideali e le aspirazioni
ivi e allora vigenti; e a tale scopo ricorreremo a ogni specie di storia che ci
possa informare e illuminare».
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Arco di Costantino, Medaglione (adrianeo) con La caccia al cinghiale, 130 d.C. -la testa del cacciatore, aggiunta in seguito, è un ritratto di Costantino |
1) il vero e proprio “Bisanzio
centrismo” di Berenson: «Le alterazioni, sempre maggiori quanto più da
Costantinopoli ci si sposta verso nord o verso ovest, non erano dovute
all’intrusione di nuovi metodi e nuovi ideali: erano semplicemente il risultato
dei vari gradi d’incapacità indigena che aveva il sopravvento, quando la forza
magnetica dell’Impero d’Oriente veniva a mancare e gli artigiani locali [non
sfugga il fatto che lo studioso non usa la parola “artisti”], privati della
guida della capitale, ricadevano nelle primitive consuetudini d’artigianato
preellenistico;
2) la similitudini che Berenson crede
di cogliere tra l’epoca costantiniana e quella contemporanea, affratellate
dalla comune decadenza dei valori estetici e tecnici, e dunque artistici;
3) la definizione, alquanto
semplicistica, del capitale concetto riegleiano di Kunstwollen, visto semplicemente come «equivalente della parola
“gusto”, o anche “stile”, caratteristici di un’epoca»;
4) la conseguente definizione del
concetto di stile: entità che non
accetta «compromessi né deviazioni» e quindi «inattaccabile, tirannico,
assoluto», che nasce e si sviluppa non per la sola forza del singolo ma per
quella di «un gruppo di individui conosciuti» (e in questo, mi sembra, abbiamo
il superamento delle posizioni idealiste e crociane fondate sul culto del Genio
individuale); e ancora, lo stile come entità incosciente allo stesso gruppo e alla stessa cultura che lo ha
generato- tanto che, e in questo Berenson sembra fare una concessione all’arte
contemporanea tanto detestata, «è probabile che i posteri scopriranno che noi
avevamo uno stile».
In definitiva, pur essendo questo un
saggio che, come suol dirsi, ha fatto il suo tempo, sia per impostazione
metodologica che per l’analisi concreta dell’oggetto artistico indagato (alcuni
passaggi sull’arte medievale e sulle sculture costantiniane alle nostre
orecchie potrebbero sembrare addirittura offensivi!), merita comunque di essere
letto, perché è una testimonianza chiara ed esaustiva di un modo di intendere
la storia dell’arte che ha segnato una pagina importante della cultura
artistica.
Oltre a questo, è un saggio dalla
lettura piacevole e comunque istruttiva, dato l’alto numero di opere scultoree
(del periodo classico, medievale e di culture orientali) che analizza, e dato
che il linguaggio perentorio, a volte
quasi prepotente del vecchio Berenson, possiede una sicura attrattiva.
[1] Pubblicato
da Abscondita nel 2007- una bella edizione con un ricco apparato iconografico.
[2] Ho
ripreso qui le considerazioni sulle teorie di Berenson che Lionello Venturi
esprime nel saggio La pura visibilità e
l’estetica moderna, del 1922, contenuto nel volume Saggi di critica, Bocca 1956. In ogni caso questo argomento lo
riprenderò più nel dettaglio, e con più precisione, in un post futuro dedicato
a un altro scritto di Berenson.