Insieme agli artisti di cui ti innamori alla prima occhiata,
per via di un vero e proprio “colpo di fulmine”, ce ne sono altri che ti
conquistano lentamente e in maniera inaspettata: opere che conoscevi da anni e
che tutto sommato ti lasciavano indifferente, a un certo punto ti fanno
innamorare. Com’è possibile? Secondo me può dipendere non solo dalla serietà
con cui ti approcci all’oggetto, ma anche dal semplice caso: un voluminoso
esame universitario può essere tanto meno efficace di un piccolo passaggio
sperso in un libro.
Sono convinto che la mediazione della lettura, dello studio,
diventa essenziale non solo per la comprensione, ma anche per il godimento estetico
e, se vogliamo chiamarlo così, per l’innamoramento: lo scrivente può svelarci
quei particolari dell’opera, quei significati (formali e contenutistici) che ci
sfuggivano, che non sapevamo vedere, inducendoci naturalmente a guardare in
maniera nuova e più partecipe. Come cercavo di spiegare in questo post, per me vedere e leggere sono
atti intimamente connessi, e il secondo è momento altamente propedeutico al
primo – e viceversa, ovviamente.
D’altronde, quale compito più alto può avere la critica
d’arte, se non quello di aiutarci a innamorarci (in maniera consapevole,
rigorosa, seria) delle opere d’arte?[1]
Di conseguenza, può darsi il caso di una sola opera che, dopo
averci conquistati, ci induce ad approcciare in maniera diversa il suo
realizzatore e le altre sue opere: ultimamente credo di essermi innamorato di
Paolo Uccello, e il merito è in buona parte del Monumento a Giovanni Acuto.
![]() |
Paolo Uccello, Monumento a Giovanni Acuto, 1436, Firenze, Santa Maria del Fiore. |
Credo che Paolo faccia parte di quella ristretta cerchi di
artisti la cui opera si connota almeno in parte come tentativo di raggiungere
uno scopo, un obiettivo particolare a cui dedicare tutte le proprie forze; ogni
singola opera diventa una stazione di passaggio, un tassello intermedio che si
aggiunge come conquista ponderata e più o meno sofferta. Non nego di trovare
molte affinità, anche a livello esistenziale, tra artisti come Paolo, Piero
della Francesca e Cézanne[2] - a cui aggiungo, escluso
il livello esistenziale, Masaccio.
Il punto, credo, è che finché i moventi di questa ricerca ci
rimangono esterni, finché la stessa presenza di questa ricerca costante non
riusciamo a percepirla, specie quando essa è complessa, allora artisti di
questa specie ci rimarranno sempre fondamentalmente estranei[3].
Ma ho divagato troppo, e forse indebitamente. Torno dunque
al Monumento a Giovanni Acuto,
affresco collocato a Firenze in Santa Maria del Fiore,
dipinto da Paolo Uccello nel 1436.
Si tratta di un’opera particolare, con questo tono bruno quasi opprimente
che occupa lo sfondo astratto negando lo spazio, e la dominante cromia bianca
che sembra, in accordo coi rossi dei finimenti, volerla contrastare giungendo a
un bilanciamento perfetto[4].
Il cavaliere, poi, sembra avere ben poco dell’altezzosità,
della gravità che si pensa come attributo primo di un personaggio di tale
importanza colto nel momento del trionfo: in realtà sul cavallo dall’aria
annoiata monta un vecchio dall’aria sorniona che sembra prestar poca attenzione
alla celebrazione di cui è protagonista – credo che non si potrebbe proprio
dire lo stesso del più austero Gattamelata
di Donatello e del baldanzoso Bartolomeo
Colleoni del Verrocchio.
Più in generale, credo si possa concordare con Philippe
Soupault quando scrive che «sembra di essere in presenza di una statua invece
che di un affresco. [Paolo] non solo ha posto il cavallo su di un piedistallo,
ma ha voluto creare l’effetto di un rilievo tramite l’utilizzo del minor numero
possibile di tinte»; e soprattutto con questa conclusione: «Gli aspetti
meramente esteriori sono, per costruzione, sacrificati, ma la pittura si rivela
per ciò che realmente è. […] Non si tratta più di movimento, di pittoresco, di
verità, ma puramente e semplicemente di pittura»[5].
Ma credo sia altro che mi ha fatto innamorare di
quest’opera, non l’incontro dei rossi coi bianchi nell’immersione del bruno
fondale, né l’incantevole scontro della luce e dell’ombra per la definizione
delle cose: è il modo in cui Paolo, il grande e incallito teorico della
prospettiva, usa quest’ultima nella realizzazione dell’opera; un modo che rivela
in maniera lampante il suo genio tanto grande da passarmi in un primo momento
inosservato.
Come scrive Stefano Borsi[6] l’artista «forza la
visione dal sotto in giù del sarcofago dipinto (la collocazione originaria
dell’affresco era sensibilmente più alta)» determinando «un’impostazione di
profilo del personaggio, quasi numismatica, non accentuatamente dal basso: come
a sottolineare la dimensione ideale, più che accidentale, del monumento». La
conclusione di Borsi è secondo me illuminante: «La costruzione prospettica non
porta a un risultato unitario ma a una divergenza voluta. Non solo a indicare
che la visione avviene per tempi diversi e non simultaneamente[7], ma anche con chiari
intenti simbolici».
![]() |
Donatello, Tomba di Giovanni e Piccarda de' Medici, 1429-33 ca. Firenze, San Lorenzo, Sagrestia Vecchia. |
Ma voglio tentare una piccola ipotesi (scusate l’ardire) a
proposito della divergenza prospettica[8]: e se in realtà non ci
fosse nulla di simbolico nella scelta compositiva di Paolo? Se, voglio dire,
tale scelta è “semplicemente” il frutto succoso dell’intelligenza del
pittore?
Un qualcosa di molto simile si vede nella Tomba di Giovanni e Piccarda de’ Medici
scolpita da Donatello nella Sagrestia Vecchia di Brunelleschi: qui, come spiega
John Shearman nel suo magistrale Arte e
spettatore nel Rinascimento italiano (di cui vi parlerò meglio tra pochi
post), la pergamena che identifica i sepolti viene srotolata dagli angeli in un’azione
vissuta «come contingente in rapporto alla nostra presenza, come
rappresentazione di qualcosa che accade quando guardiamo le tombe»; per
aumentare questa relazione con lo spettatore Donatello, nell’altra faccia della
tomba, fa in modo che la tavoletta tenuta dagli angeli in posizione reclinata,
«come per facilitare la lettura», non abbia però i caratteri scorciati, proprio
per non rendere più difficile la lettura all’eventuale lettore.
Non può essere che Paolo abbia ragionato in modo simile? Che
abbia cioè rinunciato a scorciare cavallo e cavaliere proprio per farci vedere
meglio, il più pienamente possibile, il protagonista della celebrazione? Che
dunque la divergenza prospettica sia una strategia messa in atto per favorire
noi spettatori? Io credo a questa ipotesi, anche perché non vedo per ora
dimostrazione migliore - contro le limitanti leggende vasariane che hanno
prodotto il malinteso di un Paolo Uccello freddo e angustiato matematico -
della libera creatività e dell’intelligenza artistica di questo pittore.
In ogni caso ce n’è abbastanza per innamorarsi di
quest’opera che, se a prima vista può sembrare semplice, facile fin quasi alla
banalità, in realtà si mostra solo a uno sguardo ulteriore, a una lettura più
attenta e meditata: non è un’amante che si concede facilmente.
[1] Sono
sicuro che un qualcosa del genere la scriveva Michael Baxandall in Forme dell’intenzione o Parole per le immagini, ma non ho
trovato il punto esatto. Un buon motivo per rileggere quanto prima quei due
capolavori.
[2] Cézanne
mi viene in mente per via della lettura del Paolo
Uccello di Philippe Soupault, ripubblicato
da Abscondita nel 2007, di cui vi parlerò tra qualche tempo. L’autore Cézanne
non lo cita mai, ma la sua ricostruzione della vicenda uccellesca è notevolmente
condizionata dalle esperienze delle avanguardie.
[3] D’altro
canto bisogna anche far attenzione al rischio opposto: quello di assolutizzare
questo problema, di tramutarlo, in quanto unica chiave di comprensione, in strumento
di banalizzazione e impoverimento di un’opera complessa.
[4] Queste
mie note sul colore sono assolutamente imprecise, in quanto si basano
esclusivamente su riproduzioni; e le riproduzioni tra loro possono differire notevolmente: quella che qui vedete ha decisamente schiarito l’immagine di base, tratta dal catalogo Piero della Francesca e le corti italiane - la stessa opera, riprodotta nell'Art Dossier su Paolo Uccello, ha colori molto più cupi. Insomma, io quest’opera per davvero non l’ho mai vista, quindi non
fidatevi troppo di quel che scrivo.
[5] P.
Soupault, op.cit.
[6] S.
Borsi, Paolo Uccello, Art Dossier
n.69, Giunti 1992. Borsi parla anche di «calcolato gioco di costruzione per
cerchi (come nelle Battaglie)» che io
sinceramente non riesco a vedere.
[8] Che,
credo, sia questione molto più complessa di quanto dirò, perché tale divergenza
mi sembra riguardi anche il basamento stesso: le parti che accolgono le
iscrizioni – elementi fondamentali per la comunicazione del messaggio – mi
sembrano viste frontalmente, senza scorcio.