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Simone Martini, Sante Chiara ed Elisabetta d'Ungheria, 1317 ca. Assisi, Basilica Inferiore di San Francesco, cappella di San Martino. |
Simone Martini può sembrare un pittore facile da incasellare, magari con termini che rimandino a un mondo fatto di eteree soavità. In realtà – una realtà che la critica ha scorto da tempo – Simone è un artista molto complesso da definire: perché se è vero che lui è il pittore gotico italiano per eccellenza, colui che più profondamente impara la lingua gotica dai pittori oltremontani e dagli orafi di Siena[1] e che, con buone ragioni, è stato visto come il precursore della variegata vicenda del Tardogotico europeo[2], è altrettanto vero che Simone è artista che, conoscendo Giotto, dà vita a immagini corpose, a raffigurazioni concrete, a interni architettonici sapientemente “spaziosi”.
Un’ambivalenza di fondo, o meglio, una perfetta convivenza
di termini antinomici: uno dei motivi del fascino irresistibile di Simone.
Tutto questo è formulato in un linguaggio figurativo personale, innovativo e in
costante accrescimento, a rendere ancor più complesso ed entusiasmante lo
studio di questo pittore immenso[3].
Ma come si forma, Simone? Conosce prima il Gotico dagli
orafi o prima la lezione giottesca per il tramite del futuro suocero Memmo di
Filippuccio?[4]
I suoi interventi nella Basilica Inferiore di San Francesco ad Assisi ci
possono dare un’indicazione precisa, ma problematica.
I santi affrescati nei riquadri del transetto destro, tanto
eleganti e gentili, mostrano quasi un’affettazione di modi ed espressioni; c’è
un particolare curioso ed emblematico, che si coglie bene guardando gli
affreschi dal vivo: il pittore accentua le ciglia degli occhi, le dipinge una
ad una in punta di pennello, allungandole sinuosamente; questo semplice
espediente rende i santi di sesso maschile ancor più affettati – quasi, voglio
dire, effeminati: si veda il san Francesco che, seppur barbato, si
adegua (per via di stile!) a quell’evoluzione in senso aristocratico
dell’iconografia del santo[5] che Giotto e i suoi
committenti avevano cominciato nelle Storie di san Francesco della Basilica
Superiore.[6]
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Collaboratore di Simone Martini, Santi Francesco e Ludovico di Tolosa, 1318-19 ca. Assisi, Basilica Inferiore di San Francesco |
Questa gentilezza, questa eleganza femminea, è drasticamente
attenuata nella cappella di san Martino; inoltre, quanto più Simone procede
nella realizzazione degli affreschi della cappella, tanto più i suoi personaggi
diventano concreti e ben piantati coi piedi in questo mondo[7].
Evidentemente il contatto con gli affreschi di Giotto, che
possiamo immaginare giornaliero, porta Simone ad approfondire progressivamente
quello stile tanto più brutalmente mondano di quello visto nei santi effeminati
del transetto destro. Allora le cose potrebbero essere andate così: il Simone
che arriva ad Assisi è un pittore che, dopo le prime tavole duccesche e le
prime riflessioni giottesche, ha avuto il tempo di maturare il suo stile in senso
gotico (si pensi alla Maestà per il Palazzo Pubblico di Siena) grazie agli
orafi della sua città[8], e che giunto ad Assisi ha
la definitiva rivelazione di Giotto.
Credo infatti che lo sviluppo generale di Simone vada nella
direzione di un arricchimento giottesco[9] del suo stile goticheggiante;
le opere successive ad Assisi lo mostrano abbondantemente: il polittico realizzato
per la chiesa di San Domenico di Orvieto e conservato parzialmente nel Museo
dell’Opera del Duomo[10] - un capolavoro della
pittura su tavola del Trecento - mostra
al sommo grado l’unione di dolcezza pittorica di matrice senese, eleganze
gotiche (si vedano le barbe accuratamente indagate in punta di pennello e i
preziosismi decorativi) e pienezza psicologica e spaziale. Il san Pietro che
vedete nella foto è esplicativo di quanto detto.
Questo non significa, ovviamente, che uno del calibro di
Simone Martini sia un “semplice” giottesco o un artista poco originale! Simone
rielabora la sua vasta e variegata cultura figurativa fino a produrre – mi
ripeto - un linguaggio figurativo
personale, innovativo e in costante accrescimento.
Simone Martini, San Pietro, dal polittico per San Domenico di Orvieto, 1320-24. Orvieto, Museo dell'Opera del Duomo |
Bisogna però tornare sui santi del transetto destro, che
secondo me rimangono un problema, sia che li si ponga prima della cappella di
san Martino, sia (e a maggior ragione) che li si ponga dopo. Perché prima di
Assisi Simone non ha mai fatto uno sfoggio così radicale – riprendo la
descrizione di Pierluigi Leone de Castris - di «caratteri di allungamento delle
forme e di fragilità psicologica delle figure, di maggiore semplicità e nonchalance nel trattamento dei volumi»;
e a maggior ragione sarebbe difficile credere a un pittore che improvvisamente
lascia da parte i risultati raggiunti nella cappella di san Martino appena
affrescata.
Dunque, stante l’evidente stato di cattiva conservazione
della pellicola pittorica[11], la strada più sicura mi
sembra quella della bottega: un collaboratore di Simone dai caratteri più
dolci, che allunga i corpi e i visi rendendoli elegantemente grafici e
plasticamente incerti, che rende più delicate e trasognate le espressioni; un
collaboratore che indubbiamente sente fortissimo l’influsso del maestro e sul
suo stile si fonda – si pensi a tutto il bellissimo apparato decorativo, dalle
aureole ai fondi, in cui si potrebbe anche pensare a un intervento diretto, o
almeno ideativo, di Simone - ma senza recepire i nuovi sviluppi della cappella
di san Martino[12].
[1] Si veda
il fondamentale saggio di Luciano Bellosi Il
pittore oltremontano di Assisi, il Gotico a Siena e la formazione di Simone
Martini – pubblicato originariamente nel 1985, potete leggerlo sia nel
volumetto pubblicato da Gangemi Editore nel 2004, che nella raccolta bellosiana
I vivi parean vivi. Scritti di storia
dell’arte italiana del Duecento e del Trecento, Centro DI 2006.
[2] Enrico Castelnuovo,
scrivendo della celebre mostra del 1982 Il
gotico a Siena, scrive che «Le ultime due sezioni della mostra illustrano
le forme dell’adesione senese al gotico internazionale, un tempo che vedrà gli
artisti senesi più inclini agli scambi e d’altronde artefici e custodi gelosi
di un culto di Simone Martini che ben s’intende, dato che l’opera di Simone era
alle radici della nuova pittura cortese in Europa» - il saggio, dal titolo I fasti del gotico minuscolo, è ripubblicato in E.Castelnuovo, La cattedrale tascabili. Scritti di storia
dell’arte, Sillabe 2000.
[3] Cito,
come esempio, uno splendido passaggio di Enzo Carli dal suo La pittura senese, Electa 1955: «È
quindi soprattutto il gusto della linea – congiunto, come già in Duccio, ma con
ancor maggiore delicatezza di impasti, alla rara elezione del colore – che solleva
le creazioni martiniane al disopra di ogni verosimiglianza realistica, nel
clima della più rigorosa e cristallina speculazione fantastica. Un gusto che,
maturatosi sulle più schiette ed intense espressioni del figurativismo gotico,
diviene in Simone Martini non solo elemento fondamentale di linguaggio, ma
fonte primaria d’ispirazione. A differenza però dei rabeschi in piano dei
miniatori nordici, la linea di Simone non è mai disgiunta da una certa funzione
plastica, non è mai astrattamente decorativa, e le forme che essa circoscrive
appaiono, pur nella soffice sottigliezza dei trapassi chiaroscurali e nella
tenera luminosità delle intonazioni cromatiche, assai robustamente e
incisivamente modellate. Sotto questo aspetto, Simone si rivela come il più
autentico scolaro ed erede di Duccio».
Consiglio anche la lettura del bellissimo saggio di
Castelnuovo Fortuna e sfortuna di Simone,
pubblicato nella citata raccolta La
cattedrale tascabile.
[4]
Quest’ultima è l’ipotesi di Giovanni Previtali: si veda la sua fondamentale Introduzione – fondamentale soprattutto
a livello metodologico – al catalogo della storica mostra Simone Martini e “chompagni”, Centro DI 1985.
[5] Si veda,
sempre nella Basilica Inferiore, i due Francesco affrescati dall’altro grande pittore
senese attivo ad Assisi, Pietro Lorenzetti.
[6] Si veda
il saggio di Luciano Bellosi La barba di
san Francesco (nuove proposte per il “problema di Assisi”) pubblicato originariamente
nel 1980 e compreso nel già citato I vivi
parean vivi; questo saggio confluisce
nel successivo La pecora di Giotto
– questo libro, capolavoro degli studi giotteschi pubblicato da Einaudi nel
1985, sta per essere ripubblicato da Abscondita, in un’edizione che presenta
uno studio di Roberto Bartalini.
[7] Si veda
quanto scrive Pierluigi Leone de Castris nella sua splendida monografia su
Simone, pubblicata da Federico Motta Editore nel 2003 e, in versione economica,
nel 2007.
[8] Ricorda Bellosi
nel già citato saggio sulla formazione di Simone, «Quando, nel primo decennio
del Trecento, il giovane Simone Martini comparve alla ribalta, la temperatura
gotica dell’ambiente senese era fortemente cresciuta rispetto ai tempi del
giovane Duccio e questa crescita era dovuta in gran parte agli orafi e alla
nuova tecnica dello smalto traslucido che li rese celebri. La loro
disponibilità nei confronti del linguaggio figurativo gotico li mette in una
posizione d’avanguardia anche nei confronti della pittura del grande Duccio di
Buoninsegna».
[9] Ma
riporto un avvertimento fondamentale che Ferdinando Bologna affidava alle
pagine del suo classico Novità su Giotto.
Giotto al tempo della cappella Peruzzi (Einaudi
1969), un libro stupendo di cui vi raccomando la lettura: «ritengo che le
relazioni già da altri osservate fra gli affreschi di Simone [nella cappella di
san Martino] e quelli Peruzzi, nel senso di una dipendenza di quelli da questi,
debbano essere rovesciate a favore di Simone Martini e nel senso del colore. […]
Quanto a lungo e quanto intensamente l’attenzione prestata da Giotto agli
affreschi assisiati di Simone rimanesse operante nella mente di quegli, mi pare
che possa essere dimostrato bene ponendo a fronte la Santa Chiara che Giotto
dipinse più tardi nella cappella Bardi con la Santa Chiara che il Martini aveva
dipinto sull’arco d’ingresso della sua cappella in Assisi».
[10] Di
sfuggita voglio dire che la disposizione delle tavole superstiti del polittico,
proposta nel museo orvietano, mi sembra evidentemente sbagliata. Avrò modo di
tornare su questo problema.
[12] Leone
de Castris pensa al giovane Tederigo Memmi, il che ci riporta all’annoso
problema della bottega famigliare di Simone Martini.
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